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C’E’ CHI PUO’ E CHI NON PUO’. A VOLTE IO NON PUO’

Ho quasi mille occhi puntati su di me, ma mi sento perfettamente a mio agio, perché adoro questa parte del mio mestiere, e poi l’abito che ho scelto questa sera – un lungo abito in chiffon argento, modello sirena, che a partire da metà polpaccio si apre con una balza di seta nera, e che dietro lascia la schiena nuda – mi calza a pennello, e si adatta incredibilmente al tono elegante e stiloso della serata.

Il concerto è iniziato da venti minuti, la notte è completamente scesa ai bordi di questa location suggestiva e perfetta per un concerto di arie tratte dalle opere liriche più famose, e i quasi 500 spettatori si stanno godendo la brezza estiva di questo giardino all’aperto cullati dalle note di Verdi, Puccini, Rossini.

È tutto incantevole, e la macchina organizzativa – perfettamente rodata – non sta lasciando nulla al caso.

Il mio ruolo stasera è uno di quelli che preferisco, perché non si tratta di presentare all’inizio e buona visione, ma devo introdurre ogni singolo momento, raccontando – tra un’aria e l’altra – aneddoti, informazioni e curiosità sul compositore di turno. Mi sento in armonia con tutto: con i musicisti, con gli spettatori, con la mia vita e con l’universo intero.

Fino a quando l’universo intero si restringe attorno ad una persona sola, e mi costringe ad uno sforzo che mai in vita mia ho dovuto fare così.

Questa persona è il fonico della serata. Un omone dalla carnagione abbronzata cui non riesco a dare un’età – troppo grande per essere mio padre, troppo giovane per essere mio nonno, gli occhiali in bilico sul naso, un profilo alla Alfred Hitchcock. Ha un’andatura buffa, lo sguardo simpatico, sempre concentrato su quello che sta facendo: montare l’impianto audio, puntare le luci, tarare il mio microfono. Un modo di fare rassicurante. Mi piace, questo omone, mi sa di buono. Impacciato, ma buono.

Un secondo prima dell’inizio spettacolo si sistema in consolle, che si trova esattamente di fronte al palco ma dopo tutte le sedie dei spettatori, ed è montata su una pedana rialzata un metro da terra. C’è il palco e sopra il palco ci sono io e davanti a me ci sono gli spettatori suddivisi un due ali e dietro di loro c’è il signor fonico issato sulla pedana di fronte alla sua consolle.

In pratica sono l’unica che lo vede. Mannaggia la miseria.

Perché proprio venti minuti dopo l’inizio, mentre sto raccontando come sia nato il Duetto Buffo di Due Gatti composto da Gioacchino Rossini nel 1825, vedo il signor fonico che si sposta troppo verso sinistra, mette un piede nel vuoto, e cade lungo disteso sul prato, rialzandosi praticamente subito per tornare in consolle, scoppiando a ridere e facendomi segno con la mano che è tutto ok.

Una carambola assolutamente identica a quella che avevo visto fare solo qualche giorno prima a un panda abbarbicato su una palla di neve in uno di quei video buffi che girano su Facebook. E nell’istante esatto in cui realizzo che il signor fonico sta bene e che è carambolato esattamente come il panda, sento un formicolio partire dal fondo dello stomaco, risalire lungo la faringe, ed esplodermi in gola.

Non posso farci nulla, sto per esplodere in uno scoppio di risa. Ma, per dirla a chi delle risate è stato il Principe, “c’è chi può e chi non può” e io questa sera non può proprio, perché i mille occhi puntati su di me non si sono accorti di nulla, e si stanno immaginando Gioacchino Rossini seduto a tavola che mangia ascoltando i gatti in amore sotto casa sua.

Non posso non posso non posso mettermi a ridere.

Tento di soffocare l’istinto, tento di ricacciare la risata giù. Stringo gli addominali che mai in vita mia ho sentito così presenti, e mi concentro sul “miau” dei gatti sotto casa di Rossini, che poi il componimento è attribuito a lui ma mica si è davvero certi che sia suo.

Stringo la pancia, termino la presentazione, invito sul palco i due soprani, e corro in camerino per esplodere nella risata più sofferta di sempre.

Da allora non mi è capitato quasi mai di dover trattenere una risata, purtroppo, anche se più di una volta mi son trovata stretta nella morsa del pianto, vuoi per rabbia, tristezza, solitudine, delusione, o anche tutto assieme, ma in luoghi o momenti o contesti in cui di lasciarmi andare allo sfogo proprio non se ne parlava.

Perché ci sono volte in cui non ci si può proprio lasciare andare, anche quando le emozioni ti piombano addosso come un colpo di vento che non capisci da dove si sia levato ma ti volare via tutti i fogli che tenevi sulla scrivania, e tutto quello che puoi fare è tentare di trattenerne quanti più riesci.

E allora si devono tenere le mascelle ben serrate, e il respiro sotto controllo, e il cuore più calmo che si può, e gli occhi belli secchi e il sorriso stampato sui denti anche se dentro ti stai mordendo le pareti della bocca da sanguinare. Concentrati su quel sapore amaro e ferroso, lavora sui tuoi pensieri e mantieni l’aplomb che la situazione richiede, fino a quando potrai finalmente lasciarti andare perché sarai sola.

Perché è questo che fanno le signore; e – sempre per citare il Principe della risata – signori si nasce e, modestamente…

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