CONFESSO CHE HO INVIDIATO
Il sole a picco sull’incantevole piazzetta di Palazzo Crema, a Ferrara, rende la situazione ancora più difficile.
Sento le gocce di sudore scivolarmi lungo la schiena, e la gonna lunga che indosso sarà anche bellissima, ma il tessuto sintetico mi tiene incollata alla sedia in modo insopportabile.
Tuttavia, il disagio fisico è nulla rispetto a quello emotivo.
Ho gli occhi fissi su Paolo Cognetti, ultimo vincitore del Premio Strega che sta raccontando a Daria Bignardi e Vasco Brondi – Luci della Centrale Elettrica, come sia cambiata la sua vita da quel giorno.
Più che raccontare, a parer mio, si sta lamentando: dell’improvvisa notorietà, delle richieste banali che l’hanno assalito dal giorno della proclamazione, del tempo da dedicare alla scrittura che – prima volta in quarant’anni – gli sta mancando sempre di più, tanto che per ritrovare un po’ di serenità ha deciso di partire per un viaggio di un mese in Nepal.
Mentre parla, io continuo a scuotere la testa.
A. mi guarda seccato, non capisce perché io sia così infastidita.
Minimizzo, dico che non è vero, dico che Cognetti è un ingrato perché se voleva evitare la notorietà poteva limitarsi a scrivere sul suo diario segreto e leggere i racconti a voce alta per intrattenere l’eco della vallata in cui vive.
“Amore, ma non è che sotto, sotto sei un pochettino – ma giusto un pochettino – invidiosa?”
“Noooo! Ma come cazzo fai a dire una cosa del genere? L’invidia è un sentimento orrendo, e non mi apparterrà mai!”
Lo guardo come se volessi prenderlo a testate, ma in realtà quella che a testate andrebbe presa veramente sono io.
Perché, sotto, sotto, mio moroso ha ragione.
Per tutto il tempo dell’intervista ho guardato Cognetti invidiandolo; seduta da quella parte avrei voluto esserci io, lo Strega avrei voluto averlo vinto io.
Ho provato nella sua autenticità il sentimento perfido e disgustoso dell’invidia, è non è manco stata la prima volta.
Mi è capitato di invidiare persone più belle di me, persone più ricche, persone più fortunate, persino persone più sorridenti.
Ho invidiato le mamme col pancione a passeggio per i corridoi dell’Ikea, ho invidiato le spose nell’atto di lanciare il bouquet.
Ho invidiato ogni scrittore che sia riuscito a scrivere qualcosa di incantevole, accattivante e originale.
Lo confesso, conosco e ho provato l’invidia, ma proprio quel pomeriggio durante il Festival dell’Internazionale mi sono resa conto che l’unico modo per non soccombervi è riconoscerlo, questo sentimento di merda; dopotutto, è uno degli stati più umani che ci siano, e proprio per questo va ammesso, accettato e vissuto nell’unico modo adatto per combatterlo: riconoscendo e valorizzando la nostra unicità rispetto a qualsiasi altro essere umano.
Io, per esempio, non sarò una bellezza mozzafiato e non avrò figli e probabilmente non indosserò mai un vestito bianco con strascico e velo in pizzo, e quello che scrivo piace a qualcuno e farà schifo a qualcun altro, ma sono io.
Nei giorni in cui amo l’universo intero e in quelli in cui potessi cancellare tre quarti degli esseri umani lo farei, sono sempre e comunque io.
Quindi, Paolo Cognetti, ti chiedo scusa se quel giorno ti ho lanciato sguardi affilati come coltelli, e ti auguro di tutto cuore di poter ritrovare un po’ di serenità, silenzio, e tempo per scrivere in Nepal.
E chissà che un giorno, Strega possa diventarlo anche io (e allora mi aiuterai tu a programmare il viaggio giusto per non farmi travolgere da tutto e da tutti, vero?)