LA VERITA’ VINCE SEMPRE
Lunedì 21 settembre 1992 mi si è staccata una gamba. La gamba destra, per la precisione, all’altezza di metà polpaccio. Quello stesso giorno è stato anche l’ultimo in cui ho detto una bugia ai miei genitori.
E per mia sfortuna, le due cose sono collegate.
Un momento: non ho perso la gamba perché i miei genitori hanno scoperto che avevo detto una tipica bugia da adolescente ed hanno voluto punirmi alla medieval-style.
Quel giorno ho semplicemente – per quanto semplicemente non sia proprio l’avverbio esatto – fatto un incidente sbattendo con il motorino – un Ciao nero – contro un palo della Telecom – che allora si chiamava ancora Sip – in un punto e in un momento in cui non avrei mai dovuto essere lì – per quanto ne sapevano i miei genitori.
Era il primo giorno del secondo anno di liceo; mamma e papà erano convinti che il tragitto quella mattina per me sarebbe stato facile e rettilineo: casa mia – fermata dell’autobus nel paese vicino. Peccato che io fossi d’accordo con un’amica di andare alla fermata assieme. Quindi il tragitto che avevo deciso di fare era: casamia – casadellamiaamica – fermata dell’autobus. Papà lo scopre la sera prima, quindi domenica, e mi proibisce di fare quella deviazione. Gli dico ok, papà. Faccio come vuoi tu. Ma nella mia testa sapevo già che non avrei fatto così, perché eravamo nel 1992, e allora non c’erano né cellullari né la possibilità di comunicare con una tua amica sedicenne alle undici di sera di domenica, quindi dovevo per forza passare da casa sua.
Cosi la mattina dopo, il 21 settembre 1992 appunto, parto in sella del mio motorino e mi dirigo, tutta bella ganza con l’Invicta sulle spalle, verso casa della mia amica. Che però è già uscita. E allora mi rimetto in sella del mio Ciao (che avevo da un anno, e che mi faceva sentire più coraggiosa e prode e fiera di John Wayne in sella al suo cavallo), e parto verso la fermata.
Ok, probabilmente stavo correndo un po’ troppo e probabilmente l’erba non era tagliata proprio bene a bordo strana ed era pure umida perché probabilmente la sera prima aveva piovuto; quello che è certo, è che sono scivolata, ho rischiato di perdere il controllo del Ciao, sono riuscita comunque a restare in strada, un pochettino troppo vicino al bordo però, visto che la mia gamba si è scontrata con il chiodo che usciva dalla ganascia in cemento di quel maledettissimo palo dell’ex Sip oggi Telecom, ho fatto un giro su me stessa, e sono piombata a terra. Tutta intera. Tranne per il piccolo particolare che la mia gamba destra non c’era praticamente più, perché stava attaccata al resto di me soltanto grazie ad un piccolo lembo di pelle.
Di quello che è successo dopo, non ricordo quasi nulla, salvo alcune immagini che ho fisse in testa. Il Fiorino bianco che ho fermato chiedendo aiuto; la signora che abitava nella casa di fronte e che è corsa fuori con una coperta; le persone che via via sono arrivate; le tettone della signora che abitava nella casa di fronte che, sistemandomi la coperta, hanno rischiato di causarmi un’asfissia ben più grave della gamba staccata.
E poi un suono, il suono di quattro copertoni che arrivano a tutta velocità e si fermano stridendo a due millimetri della mia testa; era arrivato papà, e non riuscivo a capire se fosse più spaventato o arrabbiato.
E poi l’ambulanza, e io che inizio il mio show lanciandomi nel racconto spensierato della mia adolescenza, commuovendo medici ed infermieri nel punto in cui inizio a raccontare che non potrò mai più fare la modella. Mannaggia a questo incidente. La mia carriera è finita. E medici ed infermieri che non sanno se ridere o piangere di fronte a questa ragazzetta onestamente più somigliante alla Ugly Betty delle prime due serie piuttosto che a una Miranda Kerr prime ali. (quelle di Victoria, non della Lines, ovviamente).
In sala pre-operatoria, mentre un’infermiera mi toglie con l’etere lo smalto che avevo accuratamente messo la sera prima, mi lancio nella recitazione delle mie ultime poesie, tutte dedicate all’infelicità dell’amore non corrisposto e all’inutilità della vita, che al confronto il pessimismo cosmico di Giacomo Leopardi risulta allegro come il chiacchiericcio delle partecipanti ad un torneo di burraco, con l’anestesista e l’ortopedico che si scambiano sguardi interrogativi chiedendosi se non sia forse il caso di lasciarmi morire durante l’intervento per evitare una vita di sofferenze emotive al di là di quell’ermo colle.
Durante l’intervento, ho sognato. Lo giuro. Ho sognato le mie compagne di classe (dopotutto, era il primo giorno del mio secondo anno di liceo, e a quell’ora avrei dovuto essere con loro!).
Mi sveglio dall’anestesia – e ancora mi par di sentire la voce dell’infermiera che chiamava il mio nome da una dimensione lontana e stranissima – ed inizio a ringraziare tutti. Sorridendo e a voce alta e confessando loro quanto fossi felice, visto che, una volta nella vita, capita a tutti di rompersi qualcosa e farsi ingessare un arto.
Il personale medico è sempre più allibito dal mio comportamento, che raggiunge l’apice mentre mi portano in reparto e per tutto il tragitto continuo a cantare a squarciagola tutto il repertorio di Baglioni. Ricordo ancora quello che dissero a mia mamma.
“Signora, l’intervento è andato bene, stia tranquilla, la gamba è salva. Ma per questo comportamento così bizzarro, domani faremo una tac per scongiurare problemi alla testa”.
E mia mamma che risponde:” State tranquilli voi, signori. E’ normale così.”
E poi la terribile scoperta: niente gesso, perché avevo voluto fare le cose in grande. Niente gesso ma sei mesi di fissatori (dei ferri metallici che hanno tenuto assieme i due pezzi della mia gamba), diciassette sedute di ossigeno terapia, un mese di gesso, e cinque sveglie ricevute in regalo da amici e parenti, con un messaggio subliminale non proprio latente.
E la mia gamba ancora qui, a farmi camminare per il mondo. A farmi inciampare, correre, saltare, ballare, o stare seduta incrociandosi con l’altra.
La mia gamba ancora qui a ricordarmi che la verità sempre.
Perché quello che non dimenticherò mai di quell’incidente, e quello che ancora adesso mi fa più male, è il terrore nello sguardo dei miei genitori; lo shock, la paura, e quell’espressione pungente come il morso di un ghiacciolo su un dente cariato che aveva una solo interpretazione: ci hai detto una bugia, e non possiamo manco arrabbiarci o mostrarci delusi perché ti sei fatta male, male davvero.
Da allora non ho più mentito non solo a loro, ma a nessun altro, iniziando proprio da me stessa.
Perché ho capito che tanto, prima o poi, la verità viene sempre fuori; solo che fa più male quando si scopre, che quando si sente dire. E non c’è nulla di peggio dello sguardo, della voce, dell’espressione di una persona che ha scoperto la verità dopo che le hai mentito.
Quindi amica, quando ti trovi in una situazione in cui essere sincera ti costa fatica, ripetiti queste parole: la-verità-vince-sempre. E non avere paura: se sei sincera, sei nel giusto. PS: ovviamente questa regola vale per le grandi verità esistenziali, quelle con la V maiuscola; le piccole bugie quotidiane che ci aiutano a vivere meglio, del tipo “amore, mi presti la tua carta di credito che ho perso la mia” (quando invece della tua hai esaurito il plafond), dette anche “bugie bianche” sono autorizzate. Ma solo se si tratta di amore, shopping, e rapporti con la suocera!