Regola#94quandoiltuocapovesteprada

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…soprattutto quando il nostro capo ricorda fin troppo da vicino Miranda Priestly. Esattamente come nel mio caso…
QUANDO IL TUO CAPO VESTE PRADA

“Sinceramente credo lei non sia assolutamente portata per questo mestiere, anzi credo nemmeno le piaccia. E visti i pessimi risultati che ha conseguito in questi sei mesi, sono sicuro non sarà affatto sorpresa nel sentirmi dire che il nostro rapporto di lavoro si conclude qui”.

E io resto immobile sulla poltrona, pensando a quanto invece abbia amato quel lavoro, ripassando mentalmente le cifre – alte –  dei contratti che avevo chiuso da sola e fissando una delle persone che ho stimato meno da quando sono entrata nel mondo del lavoro, mentre mi spiega perché sto per diventare una disoccupata.
E mentre lo ascolto elencare tutti i miei difetti (e cioè quanto io sia una persona arrogante, e che non si stupisce del fatto che non sto con nessuno perché è impossibile che qualcuno possa sopportare di stare con me, e che non so organizzarmi e che non ho gusto estetico ecc. ecc), l’unica cosa cui riesco a pensare è al livello altissimo che ha raggiunto il mio autocontrollo, tanto che sono sicura ora potrei anche alzarmi e fare la figura yoga dell’albero in equilibrio su un filo teso tra quell’uomo e la grandezza del suo ego al lato opposto della stanza.

Quando lui finisce mi alzo, vado in ufficio dalle colleghe, e rido. Rido di gusto. Perché al punto in cui sono arrivata, che quel contratto non mi venga rinnovato è per me una liberazione. E perché ho raggiunto il mio vero obiettivo: so quello che valgo a prescindere da quello che mi ha appena detto il mio capo.
Perché, ahimè, troppo spesso quello che sappiamo fare nel nostro lavoro non corrisponde affatto con l’immagine che il nostro capo ama dare di noi, soprattutto quando il nostro capo ricorda fin troppo da vicino Miranda Priestly.

Esattamente come nel mio caso.
Il mio incarico era iniziato sei mesi prima; e come ogni novità, non vedevo l’ora di ricominciare daccapo e riuscire finalmente ad esprimere appieno le mie potenzialità, e soprattutto di dare un po’ di vigore alla mia autostima professionale minata – nei lavori precedenti – da capi che si erano rivelati dei veri e propri pezzi di merd. E scusate per il francesismo.

Stavolta pensavo sarebbe andata diversamente. Invece, dopo soli 4 giorni avevo capito che anche la legge di Murphy aveva colpito ancora: non importa quale lavoro tu vada a fare, nel 70 per cento dei casi il tuo capo sarà uno stronzo. Nell’altro 30%, sei fortunato. Il tuo capo è tuo padre. (che poi non so se sia davvero una legge di Murphy, ma di sicuro so che lui la condividerebbe).

Tornando a quell’incarico, dopo la scuola, la cultura, l’agricoltura, stavolta ero entrata nel mondo del turismo, occupandomi di marketing, pr ed eventi per una struttura alberghiera. Ovviamente, del mondo degli alberghi non sapevo una cippa lippa, ma questo era ben chiaro tanto a me quanto ai miei capi. Che mi avevano rassicurata subito: “avrà una formazione completa, sicuramente le ci vorrà qualche mese ma poi sarà autonoma”.

Qualche mese. Evidentemente per loro qualche mese era pari a 4 giorni.

Perché proprio 4 giorni dopo, decidono di mandarmi a Milano per “assistere ad un convegno”, come dicono. Io mi sento già figa solo a sentir dire “convegno” e “Milano”, e accetto subito. Indosso il mio tailleur più professional e meneghino che possiedo, compero il quaderno più stiloso della cartoleria, accompagnato ovviamente dalle matite in pendant (perché una manager figa prende anche gli appunti con stile) e parto. Treno, Metro, qualche indicazione, arrivo all’albergo, proprio vicino a Piazza Duomo.

Entro, vado al tavolo delle iscrizioni. E lì accade qualcosa che non capisco. Perché le signorine hostess mi accompagnano in una grande sala piena zeppa di tavolini con i nomi degli alberghi.
Toh guarda, evidentemente è un convegno particolare, magari mi faranno delle lezioni personalizzate per cui dovrò passare da un tavolino all’altro.

Ehm, no. Sarò stata anche professionalmente figa con quel tailleur meneghino, ma evidentemente restavo una ragazza poco sveglia. Perché in realtà trattavasi non di convegno, ma di un meeting BTB. Altresì detto: il mio posto era DIETRO ad un tavolino con il nome dell’albergo, e chiunque poteva sedermisi davanti pretendendo di ricevere informazioni su una struttura per la quale lavoravo da 4 giorni.

Non sono entrata in panico semplicemente perché non ne ho avuto il tempo; ho sfoderato la mia faccia tosta migliore, e ho portato a casa anche quell’esperienza; per cui alla fine ero esausta, ma felice. E decisa comunque a spiegare ai miei capi che avrei preferito avere qualche informazione in più.

La mattina dopo arrivo in ufficio, l’amministratore delegato mi chiama e mi chiede come sia andato il convegno; gli riassumo la giornata sottolineando i contatti che comunque son riuscita ad instaurare, e poi oso fare una cosa che mai prima di allora aveva fatto con un mio capo: da professionista quale sono, gli dico che nessuno mi aveva spiegato di cosa si trattasse, e che in futuro avrei voluto avere più informazioni per arrivare sempre preparata al massimo. Lui mi guarda, e con un’espressione di disgusto cui ho tristemente imparato ad abituarmi, mi dice: “se non sa stare ai nostri ritmi è meglio che rinunci subito”.

Ehm, amministratore de sti cazzi…ritmi???? Tutto quello che sapevo era il luogo e l’ora di quello che voi avete chiamato convegno! Non mi avete dato un nome, un titolo, un ente organizzatore, nulla. Ma voi siete i miei capi. Io vi amo perché mi avete scelta per questo lavoro quindi vi sono grata quindi lo sguardo di disgusto va bene. Lo accetto.

E via di seguito per i mesi successivi, io a sentirmi sempre più incompetente e loro a calcare la mano per fare in modo che il mio sentirmi incompetente si allargasse ad ogni aspetto della mia vita.

Un sistema malefico di torture psicologiche che andavano dall’ascoltare le mie telefonate con i clienti, intervenendo ad alta voce senza avere la minima idea di quello che in realtà il cliente mi stava dicendo, al pretendere tutte le sere una mail con l’elenco delle cose che avevo fatto durante la giornata. Certo, amministratore delegato de ‘sti cazzi, perché il marketing è il campo migliore per redarre ogni sera un fottutissimo elenco delle cose che ho fatto, lo sanno tutti.

Eppure, erano i miei capi, mi avevano dato un lavoro in questo periodo di crisi e di conseguenza se riuscivo a pagare l’affitto era solo per merito loro, e di conseguenza io li amavo, questi cari capi che mi guardavano con lo schifo negli occhi, perché loro mi avevano dato un lavoro.

Fino a quel giorno. Avevamo un grosso evento organizzato per la sera, che avevo seguito io dall’inizio. Quel giorno avevo lavorato 16 ore di fila (pagata 8, ovviamente), facendo – e quindi imparando – tantissime nuove cose. A fine giornata ero sfinita, ma super felice mentre scrivevo la mail quotidiana delle cose svolte, perché quel giorno le cose svolte erano tante e tutte fatte bene.

Invio la mail, e vado a casa sorridente, piena d’amore per quel lavoro che mi piaceva ogni giorno di più.

La mattina dopo, devo stampare una mail dal pc della mia capa. E l’occhio mi cade su una mail che le aveva scritto il suo socio, cioè l’altro mio capo. Anzi, che lui le aveva inoltrato. Mi cade l’occhio perché è la mia mail della sera prima. Che lui ha inoltrato alla socia con il seguente commento: “leggi un po’, ma chi si crede di essere questa qui? La direttrice dell’albergo?”

Leggere quella mail fu la mia rovina, perché persi completamente la fiducia nei miei capi, ma fu anche la mia salvezza.

Perché dopo quasi 20 anni di lavoro, finalmente in quel momento ho capito una cosa fondamentale: non saranno mai i tuoi capi o i tuoi superiori a determinare la misura di quello che vali in campo professionale. Non saranno mai dirigenti o colleghi o diretti superiori, perché sono troppe le dinamiche che intervengono in questo tipo di legami.

Qualsiasi sia il lavoro che fai, sono le persone che nell’organigramma sembrano contare meno ad essere le più importanti per te. Che siano dei clienti, o dei fornitori, o il più timido dei tuoi studenti o il più sfortunato dei tuoi pazienti o il meno abbiente dei tuoi contatti, sono proprio loro le persone fondamentali per te.

Se sei una persona valida, saranno loro i primi a sentirlo, i primi a fartelo capire e i primi ad essertene grati.

Perché se il tuo capo veste Prada, alla maggior parte delle persone con cui e per cui lavori non interessa un cazzo di come vesti, ma conta solo che tu sia lì per loro, e possa farli sentire importanti.

Tanto i calzini bucati alla fine li abbiamo tutti, e non importa se a nasconderli siano un paio di Prada o di semplici mocassini neri.

 

 

 

 

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