ANCHE SE CHI SI AMA SI PERDE, L’AMORE SARA’ SALVO E LA MORTE NON AVRA’ DOMINIO
La prima immagine che mi viene in mente, ripensando a quel giorno di tanti anni fa, è quella di una ragazzina in piedi davanti alla finestra del terrazzo. Si sta asciugando i capelli con un asciugamano arancione, guardando gli alberi in fondo a quella curva lontana, dietro alla quale c’è casa tua.
Ricordo la naturalezza di quei movimenti, ricordo la testa leggermente chinata di lato per asciugare anche i capelli dietro la nuca; ricordo il profumo del balsamo che avevo usato. Ricordo persino il colore esatto che aveva il cielo, e la forma delle cime di quegli alberi laggiù in fondo, dopo quella curva alla fine della strada dove abitavi tu.
Ricordo il suono della mia voce, pieno soltanto dei sogni che si hanno a 16 anni. Ricordo soprattutto la leggerezza di quella mia voce, che si sentiva subito non si era ancora mai spezzata.
Ricordo il suono del telefono, un nome, quella frase.
Io che crollo a terra.
Tu che non ci sei più.
La tua morte è coincisa con il freddo di un pavimento in marmo, quella mattonella che ho visto da così vicino che riesco ancora oggi a disegnarne le venature precise. E da quel giorno, c’è sempre stato solo e soltanto un dopo; forse è questo il potere più grande della morte: fa perdere la memoria alla nostra capacità di ricordare.
E ci mette di fronte ai nostri limiti.
Perché quando perdiamo una persona, quello che ci fa stare più male è quello che quella persona si porta via di noi. E ci scopriamo deboli, egoisti e zoppi, perché fino a quel momento ci sembra di avere avuto un senso solo se in relazione alla persona che abbiamo perso.
Credo che un po’ sia anche colpa della lingua che gli uomini hanno creato, che identifica un essere umano solo in funzione del ruolo che ricopre al mondo: nasco figlia, divento alunna, studentessa, amica, cugina, sorella, fidanzatina, impiegata, amante, moglie, madre. Come se ognuno di noi esistesse davvero soltanto se in relazione al resto del mondo, o ad una persona sola.
Poi ti arriva una telefonata, e quella persona non c’è più.
E tu ti senti delegittimata, spogliata di un nome di un ruolo di una certezza.
E cominci a vivere guardando la vita da una finestra, bloccata in un stanza mentre là fuori tutto scorre, e tutti vanno avanti.
Tutti vanno avanti mentre tu ti rendi conto che non stai guardando fuori, ma stai fissando il vetro.
Perdi tuo padre e ti disorienta sentirti figlia, perdi tuo figlio e ti lacera sentirti chiamare mamma; perdi tua madre e ti rendi conto che avrai freddo per tutta la vita; perdi la tua migliore amica e non vorresti più avere amiche per non doverle chiamare così, perdi tua nonna e dimentichi il significato di sentirsi coccolata, perdi tuo marito e non riesci a vestirti del significato che ha la parola vedova, ma ti viene il vomito a sentire che sei stata moglie; perché sei stata, non sei più. E non lo vuoi accettare.
E allora fanculo tutti e tutto e fanculo il dolore che senti e che nessuno sembra capire; fanculo che tutti vanno avanti comunque e fanculo il tempo che non si può fermare e non si può tornare indietro e cambiare quel momento. Solo quel momento. Fanculo te che in quel momento non eri li. Fanculo le preghiere che non riesci a fare, fanculo che è toccato a te di sentire questo male dentro che proprio non ce la fai. Fanculo che devi farcela lo stesso. Fanculo che non riesci a dormire. Fanculo che non riesci a sognarlo più. Fanculo il suo profumo che riconosci ancora, fanculo te che mi passi accanto con il suo profumo e non sei lui. Fanculo a tutte le cose che volevi fare con lui. Fanculo che non te lo meritavi. Tutto, ma questo male no. Fanculo che hai iniziato ad amarlo davvero proprio ora che non c’è più. Fanculo a tutto quello che non tornerà più come prima. Fanculo la pioggia, e quel giorno che cosa tieni l’ombrello aperto a fare se non piove. Odio le goccioline. Fanculo anche le goccioline e fanculo alla squadra per cui tifava e fanculo alle canzoni che amava. Fanculo. Fanculo che è andato via. Fanculo che non ricordo più la sua voce. Fanculo lui, che è morto senza chiedermi se ero pronta per stare senza. Non lo sarei stata mai. Eppure guardami. Fanculo a me, che ce l’ho fatta. Con la mia cicatrice in pieno petto, ma sono ancora qua.
Perché questo è tenuto a fare, chi resta. Vivere anche per chi non c’è più. Che tanto noi lo sappiamo: chi muore, non se ne va mai veramente.
Amica, sai che faccio, quando la nostalgia diventa insopportabile? Scrivo il suo nome. Lo scrivo in maiuscolo. E lo scrivo accanto al mio, e in maiuscolo pure il mio. Perché non è in quello che ci legava allora, la mia forza. Ma in quello che ci lega adesso.
La parte più difficile è all’inizio, quando teniamo in ostaggio la persona che abbiamo perso nella nostra testa. Perché il suo posto è nel tuo cuore, e solo lì. Dove fa più male, certo, ma dov’è ti sarà più facile sentire la sua presenza.
Sposta la persona che hai perso nel tuo cuore, e permettile di portare con te il peso della sua assenza. Lasciati aiutare da quello che assieme avete condiviso PRIMA; è l’unico modo per sostenere il dopo.
Vivi per quella persona, sorridi per quella persona, combatti per quella persona.
Non è quello che vorresti facesse al tuo posto?
Guarda i vostri nomi, scritti uno accanto all’altro. Asciugati le lacrime. E diglielo, a voce alta: fanculo te e il bene che ti voglio. Ma diglielo sorridendo.
(fanculo amico mio, fanculo te e le tue mani che sentivo sulle mie mentre scrivevo questa regola)