WHO CARES? (ALTRESI DETTO: LA SMETTI O NO DI FARTI SEGHE MENTALI?)
Oggi ho fatto una delle mie classiche figure di cacca, giusto per essere elegante e visto che oramai c’ho una certa età e dire merda mi sembra brutto.
Dovevo intervistare un ex campione di ciclismo per un’emittente privata regionale. Più precisamente, dovevo scambiare un paio di battute con l’ex campione mondiale di ciclismo su strada Moreno Argentin. Per la verità, quella era soltanto l’ultima di una serie di interviste in scaletta: dal presidente regionale del Coni a quello degli esercenti funiviari (esistono, lo giuro), erano in scaletta 5 interviste, con lanci di apertura e chiusura trasmissione. Dovevo essere in diretta, ma poi l’emittente ha deciso di registrare i contributi e mandare tutto nel pomeriggio.
Mi ero preparata sugli ospiti, giuro anche questo. Difatti le prime interviste vanno via filate, e anche i due lanci di apertura e chiusura. Oggi ero particolarmente in forma, con una buona parlantina. Eh sì. Già, già. Anche nei lanci, son stata proprio spigliata. E poi la battuta sullo sport vissuto a 356 gradi mi è venuta così, ahaha, sono un genio dei collegamenti in differita.
Un momento. Quanti gradi? No, no, no. Non posso aver sbagliato così. I gradi sono 360. 365 sono i giorni. Cazzo. Tento di convincere gli operatori a girare nuovamente i lanci, ma sono stufi e dicono che comunque non finirò su Striscia per questo. Si, ok, c’ero arrivata anche io. E’ che odio sbagliare e poi chissà cosa penserà la gente.
Chissà cosa penserà la gente. In vita mia, mi sono chiesta più spesso questo di quanto non mi sia chiesta chissà cosa penso IO. Ma il peggio doveva ancora venire.
Arriva l’ospite clou, mi si siede nello sgabello accanto. Ci accordiamo sulle domande, e prima di iniziare ripasso mentalmente tutti i dati: campione mondiale ciclismo su strada nel 1986, vincitore quattro volte della Liegi – Bastogne – Liegi, vincitore del Giro di Lombardia, vincitore del giro delle Fiandre. Moreno Argentin, Moreno Argentin, Moreno Argentin. Ok, ci sono. Pronti partenza via.
“Ben trovati al padiglione 5 per l’ultimo collegamento con il convegno Sport&Turismo; qui con noi il campione di ciclismo Angelo Morosin. Allora, Angelo, ci vuoi riassumere il tuo intervento?”.
Attimo di pausa. Il campione di ciclismo mi guarda, e quasi a volersi scusare mi dice: beh, si, però mi chiamo Moreno. Moreno Argentin.
E io che faccio? Sorrido imbarazzata, e gli poso la testa sulla spalla. Si, davvero. Ho posato la testa sulla spalla sorridendo imbarazzata ad una persona mai vista prima – un campione sportivo – dopo aver sbagliato il suo nome e di fronte a sua moglie e ai suoi amici.
Mi scuso con tutti, sempre sorridendo perché il pavimento a occhio e croce mi sembrava troppo duro per sprofondarci la testa dentro ma pregando contemporaneamente di rinascere struzzo nella prossima vita.
Ripartiamo immediatamente con la registrazione, che stavolta va benissimo con tanto di complimenti in diretta di Angelo/Moreno. Ma io mi sento morire. Saluto tutti, mi chiudo in macchina, e mentre guido verso casa il mio cervello si lancia in ogni possibile E-LU-CU-BRA-ZIO-NE mentale: chissà cosa penseranno di me, ora non lavorerò mai più per loro, la mia carriera è finita, non avrei dovuto reagire così ecc, ecc.
35 minuti di seghe mentali, con il solo risultato di farmi venire un enorme mal di testa e il cervello sempre più cieco. Eh no, ragazza, non ci siamo. La parola d’ordine dev’essere una soltanto. WHO CARES? CHE IMPORTA?
Punto primo, continuare a scervellarsi su una qualsiasi cosa già avvenuta, grande o piccola che sia, è tutto tempo perso. P unto secondo, io sono così. Io reagisco così. Io sono questa. E vale anche per te.
Sei quella che sei. Chi ti ama, ti segue, tutti gli altri che vadano pure per la loro strada.
Se inizi a vivere ed agire considerando soltanto quello che la gente potrebbe pensare di conseguenza, rischi di vivere solo per gli altri e perdere l’unico metro che devi sempre e solo seguire: te stessa.
Che si tratti del tuo modo di vestire o portare i capelli, del tono della tua voce o della musica che ascolti, del lavoro che fai o dei libri che leggi, di chi scegli di amare o di chi preferisci ignorare, di una serata in cui non riesci a star zitta o di una domenica che passi a non spiaccicare parole, non appena cadi nella tentazione di domandarti quello che penseranno gli altri, chiediti: WHO CARES? Fa’ spallucce e va avanti per la tua strada.
E ti sentirai a mano a mano più leggera, che non vuol dire superficiale. Semplicemente, imparerai a metterti al primo posto. E ad amarti tu per prima per quella che sei.
PS: giusto per conoscenza, sappi che WHO CARES? Possiede anche una versione un ciccin più forte, e quindi anche più efficace, da usarsi proprio nei casi più gravi di paturnie mentali, ed è la seguente: I DON’T GIVE A FUCK! (per la traduzione si rimanda a Google Translator. O Ad Olga Fernando).