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…Ho cercato il baricentro del triangolo che formiano, il punto esatto in cui le nostre vite si incrociano davvero. E l’ho trovato nei ricordi, e in quello che mi hanno fatta diventare…

ONORA IL PADRE E LA MADRE. A VOLTE BASTA ANCHE UN RICORDO PER FARLO

Ti ricordi la prima volta che ti hanno strappato un cerotto, senza preavviso, e la sorpresa è stata quasi più forte e inaspettata del dolore? E la prima volta che ti sei tagliata con un foglio di carta, e mentre stavi lì a fissare il taglietto ti chiedevi come potesse bruciare tanto un semplice foglio?

Ecco, c’è un istante preciso della nostra vita in cui crescere è propri questo: un dolore improvviso ed inaspettato, che ti si fissa nella testa e che poi temi per sempre di rivivere non tanto perché fa male fisicamente, quanto piuttosto perché ti ferisce dentro lo stupore di una scossa così forte. Uno shock, come poter uscire alla luce del sole dopo aver indossato per tutta la vita delle grosse lenti scure, e realizzare che vedere veramente i colori fa più male rispetto a dover intuire le linee delle cose nel buio.

Accade d’improvviso, ed è il momento in cui guardi tua mamma e tuo papà, e li vedi come l’uomo e la donna che sono, per la prima volta spogliati del ruolo di genitori e nel pieno della loro fragilità, completamente inseriti in una vita che fino ad allora avevi interpretato a seconda della loro capacità di asservire ai doveri nei tuoi confronti: il dovere di farti stare bene, il dovere di non farti mancare nulla, il dovere di risolvere i tuoi problemi, il dovere di farti crescere, il dovere di essere quello che tu pretendevi da loro. E ti rendi conto di quanto tu sia stata ingiusta, e a volte spietata, nel permetterti di giudicarli più che per la loro capacità di essere all’altezza delle tue pretese, che per la loro naturale predisposizione ad amarti.

E da quel momento cambia tutto, anzi, diventa tutto un gran casino, perché devi rivedere totalmente la tua prospettiva, e a volte rinunci persino a ripercorrere quello che è stato, perché hai il terrore di vedere nei tuoi genitori atteggiamenti che non avresti mai potuto accettare in qualcun altro, o – peggio ancora – temi di scoprire di essere stata tu la prima ad avere commesso gran parte degli sbagli che hai sempre attribuito a loro.

E così cerchi di mediare fra quello che di buono e meno buono senti dentro, e provi a diventare tu per prima una madre migliore, evitando di percorrere i passi che tua madre ha impresso in te, o proprio seguendo le sue orme. Io non lo ricordo, quel momento preciso in cui ho immaginato la vita dei miei genitori slegata dal loro legame con me, immaginando le loro scelte viste dal di dentro, e non dal mio punto di vista, ma so quello che ho imparato a fare col tempo per mettere al centro del nostro equilibrio soltanto l’amore: ho recuperato un ricordo che più di tutti possa farmi sentire figlia, e che mi leghi a mamma e papà con la gratitudine. Ho cercato il baricentro del triangolo che formiano, il punto esatto in cui le nostre vite si incrociano davvero. E l’ho trovato nei ricordi, e in quello che mi hanno fatta diventare.

Mamma mi ha regalato l’importanza dell’indipendenza, del valore intrinseco dei piccoli gesti, del credere in quello che si è e si pensa. La mia mamma è il ricordo di una cinquecento gialla con il tettuccio apribile, e la radio che mandava Baglioni, Finardi, Cocciante, e io e lei sedute una a fianco all’altra con la possibilità di poter andare dovunque, se solo l’avessimo voluto. Mamma è la capacità di poter risolvere tutto, se solo avessi anche oggi la debolezza di chiederlo. Mamma è l’abbraccio più forte quel giorno che ho perso la persona che amavo più di tutti, e nel mio cuore di sedici anni si è creata una faglia lunga tutta la vita, la mia ferita che non mi abbandona mai, neanche oggi che sono 23 dopo.

Papà è la pazzia, la capacità di far sorridere sempre, la rudezza di dire di no e poi fare che si. Papà è i Pooh tutta la vita, e  la passione del tifoso che non molla mai, e che la Ferrari prima di tutto e la mia Inter, amala, e punto.

Papà è quell’anno che – avrò avuto sette anni – tutta la famiglia deve andare a Monza per vedere il Gran Premio, ma i soldi per pagare l’entrata per tutti non ci sono. Nessun problema, dice papà. Vogliamo andare e si va. E allora via, si parte che è giovedì e  – eravamo in più di una famiglia, a dirla tutta – l’amico Save entra in autodromo e paga il biglietto per lui soltanto, guidando però quella Station Wagon grigia stracarica per dieci – undici persone, e si va a sistemare nel posto assegnato all’interno del parco. Mentre papà diventa il mio eroe, e fa diventare me una sorta di eroina dei cartoni, che neanche Georgie o Candy Candy o nessuna delle tre sorelle Occhi di Gatto avrebbero potuto vivere un’avventura così.

C’è stato prima un albero da scalare, e poi via tutti giù correndo per quella vecchia parabolica dove una volta roteava Fangio e invece adesso c’ero io che correvo giù a perdifiato per mano a papà, e poi via sotto la recinzione passando tra ortiche e lumache rosse e schifose, e papà che mi diceva tranquilla, non ti mangiano. E poi finalmente eccoci tutti dentro il parco, e via si montano le tende dai che domani iniziano le prove libere. Forza Ferrari forza Mansell, tanto vincerà Senna anche stavolta. E il parco di Monza diventa una pineta d’estate al mare, e tende e camper e tavoli dappertutto, e la notte non si può dormire perché papà aveva messo via la tenda marrone l’anno prima che era umida, e adesso a starci dentro puzzava che neanche il fiato di un dinosauro, secondo me. Un misto di muffa e gorgonzola, con il retrogusto di piedi che hanno corso tutto il giorno d’estate dentro scarpe da ginnastica senza i calzini. E allora papà sorride, con quel suo sguardo che dice si-ok-ho-fatto-la-cazzata-ma-cosa-vuoi-che-sia, e ci serve la soluzione come se fosse la diretta conseguenza della cosa più ovvia del mondo: dormiamo con la testa fuori!!!

Ecco, parlando da figlia, questo è il mio ricordo per sentirmi una figlia fortunata: svegliarsi una domenica mattina, all’autodromo di Monza, nell’aria già l’adrenalina della gara e nelle orecchie ancora il turbo dei motori del giorno prima; svegliarsi a causa della pioggia che ti batte in faccia, perché hai dormito con la testa fuori e i piedi dentro perché la tenda puzza; svegliarsi e trovarsi in mezzo a mamma e papà, che ridono con te.

Ecco, parlando da donna, se sono quella che sono, è anche per la pioggia di quella domenica mattina. E pensando a questo, anche il casino più grande diventa perfetto e rassicurante come il baricentro di un triangolo.

 

 

 

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