LEGGI ALMENO UNA VOLTA IN NOME DELLA MADRE DI ERRI DE LUCA
Vigilia di Natale.
Luci, persone che si tengono per mano dappertutto. Persone sole, chiuse e nascoste dentro l’esigenza di un’espressione nel viso che sia in pendant con quelle lucine.
Ci sono tantissime cose che potrei scrivere per ironizzare su questa serata, ma la vigilia di Natale per me rappresenta una cosa soltanto: l’immagine di una donna che mette al mondo il suo bambino, da sola.
Da sola. Quanti significati diversi può avere la solitudine?
Per anni la vigilia di Natale è stata per me una delle sere peggiori dell’anno, perché mi sono sempre trovata disallineata rispetto a tutto quanto avrebbe davvero potuto rendermi felice; persone sbagliate accanto, regali sbagliati sotto all’albero, trucco sbagliato sul viso e sentimenti sbagliati nel cuore.
Qualche anno fa però, è accaduta una cosa che ha completamente stravolto il mio 24 dicembre, e da allora queste poche ore serali che mi dividono dai tortellini in brodo ingoiati di fronte a quel parente che scopri di esistere ogni 365 giorni, rappresentano per me una piccola parentesi di serenità e di completezza, la consapevolezza di un disegno che può andare oltre qualsiasi possibilità di cancellarne i tratti.
Ho letto “In nome della madre” di Erri De Luca. E in quelle pagine ho trovato un riparo alla mia voglia di essere mamma, e al senso di handicap che provo nel non esserlo ancora, io, più tronco, che albero da frutto. Più quercia, che melo.
In quelle pagine che leggo tutte le vigilie di Natale ritrovo ogni volta il punto esatto in cui il desiderio di quello che vorrei essere è appagato dalla certezza di quello che sono.
La storia che De Luca racconta è la stessa da duemila anni, conosciuta e descritta in ogni lingua, sotto ogni punto di vista e attraverso milioni di inquadrature diverse, ma in queste poche pagine assume un aspetto completamente nuovo, quasi privato, quasi esclusivo, perché parla di due ragazzi, giovani, innamorati e intrappolati in un’epoca dove tutto deve seguire una logica poco umana e fin troppo formale. E parla di una ragazza che diventa madre, e in quella trasformazione scopre una pienezza nuova, e totalizzante.
È la storia di Miriàm e Josef, e del vento che colpisce Miriàm e le lascia un seme in grembo.
Ecco, leggo già soltanto la pagina n.15 e riesco a provare – senz’esserlo stata mai – lo stupore del colpo di vento che ti cambia la vita per sempre.
Perché in questo libro non c’è religione, non c’è credo, non c’è legge, non ci sono limitazioni geografiche. Certo, l’amore che si racconta qui è un sentimento profondo, anticonvenzionale, grezzo perché puro, semplice perché diretto, onesto perché ricambiato, e probabilmente sono poche le persone che oggigiorno possono dire di aver vissuto anche una volta sola qualcosa che si avvicina ad un sentire così.
Ma c’è un aspetto che lo rende universale, e trascende qualsiasi coordinata temporale: forse non siamo tutte madri, ma ognuna di noi è figlia, e se non ti ritrovi nelle parole, nei gesti, nei sapori, nei pensieri di Miriàm, puoi capovolgere il focus del racconto, ed immaginare la tua, di madre, mentre guardava il cielo di notte e immaginava di descriverti le stelle.
“Così è la notte, una folla di madri illuminate, che si chiamano stelle: di tutte loro, io sono la tua. A guardarle fanno spalancare gli occhi e allargare il respiro. Ma tu non sai ancora cosa è, il respiro. È questo su e giù del petto che ti dondola”.
Il mondo ci cambia, e cambia il nostro sentire dal primo momento che nasciamo; ma c’è una piccola frazione di vita – della nostra vita – che appartiene soltanto a quell’istante in cui siamo sgusciate fuori dal ventre di nostra madre. E quegli stessi gesti, quegli stessi movimenti li hai ripetuti tu quando hai creato qualcuno che ha cambiato il tuo nome proprio in virtù di un legame.
In Nome della Madre racconta questo. Con una dolcezza e una capacità descrittive che – più lo leggo – più mi sembra impossibile sia stato scritto da un uomo. Eppure.
Ecco la parola che regge da sola questa regola: eppure.
Perché nelle ultime pagine il contrasto di quest’avverbio si respira tra una virgola e l’altra, e si riassume tutto nella preghiera di una donna che, da sola, rende al mondo una vita nuova, diventa madre, e vorrebbe fermare il tempo in quella notte nella stalla, quando l’unica responsabilità che la lega alla vita porta il nome del figlio appena partorito “più frutto, che figlio”, e la vita di ogni donna vissuta prima e dopo di lei si riassume e incatena nel dolore e nella necessità di dover affidare quel figlio ad un mondo che lo forgerà.
Abituati, figlio, al deserto.
Forse è questo, uno dei compiti più taglienti e affettuosi di una madre: sapere di dover riconoscere nel figlio, giorno dopo giorno, la propria impronta, il proprio stampo. Che a volte più anche non piacere, o non farci piacere.
Eppure, non importa quale sia il tuo stampo, o l’impronta dalla quale hai attinto i tuoi lineamenti, e non importa se verso quest’impronta provi riconoscenza o rancore; leggi questo libro, almeno una volta. Sapere da dove veniamo non cambia la direzione, se abbiamo già deciso dove vogliamo andare.
Vigilia di Natale.
“Che vuoto mi hai lasciato, che spazio inutile dentro di me deve imparare a chiudersi. Il mio corpo ha perso il centro, da adesso in poi noi siamo due staccati, che possono abbracciarsi e mai tornare una persona sola. A terra sulle pietre della stalla c’è la placenta, il sacco vuoto della nostra attesa”. […]
“Ieshu, bambino mio, ti presento il mondo. Entra josef, questo adesso è tuo figlio”.