Regola#48avoltenoncontacapiretutto,masaperlodirecomeseloavessiappenapensatotu

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…Qualche mese dopo mi sono laureata. Tesi, festa e, in piena tradizione padovana, papiro con la mia caricatura…

A VOLTE NON CONTA CAPIRE TUTTO, MA SAPERLO DIRE COME SE L’AVESSI APPENA PENSATO TU

Questa regola nasce durante una delle mie lezioni private di filosofia, mentre tentavo di spiegare alla mia dolcissima allieva cosa intendesse dire Hegel quando scriveva che “il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si compie mediante il suo sviluppo. Bisogna dire dell’Assoluto che esso è essenzialmente risultato, che esso solo alla fine è ciò che è in verità” (Fenomenologia dello Spirito).

Eravamo ferme da venti minuti a rileggere le stesse due righe; ricordo ancora i suoi bellissimi occhioni spalancati, le guance rosse dalla stanchezza mentale e l’espressione frustrata dal fastidio di non riuscire ad afferrare quel concetto, che io avevo capito alla perfezione (o almeno così sembrava) mentre lei non riusciva nemmeno a imparare a memoria quelle poche parole.

Ricordo che mi guardò e mi chiese come facesse a piacermi quella materia, e soprattutto come facessi a capire Hegel. La mia risposta fu la seguente: Piccola, in realtà non sto capendo un cazzo di quello che dico, ma riesco a dirlo come se fossi stata io a pensarlo.

Ecco il trucco, ragazzi, per sopravvivere ad ALCUNI esami, e anche ad alcune situazioni di vita.

Non si tratta di ingannare, mentire o recitare una parte che non ci appartiene: si tratta di giocare d’astuzia quando il momento particolare lo richiede.

Una volta ottenni un posto di lavoro ambito grazie al seguente scambio di battute alla fine di un colloquio col grande capo dell’Azienda:

LUI: Bene, signorina, le faccio un’ultima domanda. Sa usare ACCESS?

IO: (col tono sicuro e professionale, quasi irriverente come se in realtà mi avesse chiesto se sapevo mettermi il mascara guidando e senza guardarmi allo specchietto). Certo, è uno dei programmi che preferisco e so usare meglio.

Ottenni il lavoro. E non appena fuori dal palazzo dopo il colloquio, mi attaccai al telefono per chiedere ad un mio amico informatico non solo come si usasse, ma cosa fosse quel programma, di cui non sapevo assolutamente niente, ma che studiai nelle due settimane successive, diventandone davvero un’esperta.

Ovviamente, la mia palestra per collaudare questa tattica era stata durante i miei 5 anni di università, quando sostenni 44 esami bimestrali senza aver mai frequentato nemmeno una lezione, perché dovevo lavorare per pagarmi tasse e libri. La maggior parte delle volte arrivavo all’appello preparatissima, ma in alcuni casi ho dovuto un po’ improvvisare, perché non avevo ben capito un argomento, o non avevo avuto il tempo di prepararlo con precisione.

O perché avevo avuto un imprevisto assolutamente impensabile, come quella volta che, guarda caso, dovevo dare il mio ultimo esame di filosofia, tutto incentrato sulla Critica della Ragion pura di Immanuel Kant. Avevo studiato a fondo, e capito quasi tutto, tranne un breve passaggio alla fine della parte dedicata alla “Analitica dei pensieri, cioè lo studio dell’applicazione delle categorie alle intuizioni empiriche tramite gli schemi temporali”.

Il giorno dell’esame avevo – come capita sempre – tutto dalla mia parte: nevicava, ed era freddissimo. Il ciclo mi era arrivato con due giorni di anticipo, e stavo malissimo. Durante la notte mi era apparso un enorme foruncolo sulla fronte, e mi sentivo bruttissima.

Ore 10.00: mia mamma mi porta in stazione per prendere il treno e andare a Padova.

Entro nella mia piccola stazione, vado in sala d’aspetto, e vedo sdraiato sulla panca un senzatetto o clochard o barbone, come chiamar si voglia. Pareva dormisse. Vicino a lui una borsa in plastica piena di stracci. Per terra una scatoletta di tonno aperta.

Il primo impulso è uscire e aspettare in piedi al binario, ma a parte il fatto che stavo malissimo causa ciclo, dentro di me una vocina caritatevole ha iniziato a ripetermi che io, proprio io che facevo la catechista ed ero una pia donna, non potevo farmi prendere dai pregiudizi, e dovevo sedermi in quella stessa sala d’aspetto perché siamo tutti uguali davanti a Dio. Amen.

Quindi entro, e vado a sedermi nella panca opposta al signor clochard senzatetto che- sei-come-me-perché-io-sono-caritatevole-e-pia.

Mentre aspetto il treno, decido di chiamare il ragazzo con cui stavo allora per il buongiorno quotidiano. Tengo un volume di voce basso per non disturbare il poveretto che dorme. Non basso abbastanza, evidentemente, visto quello che è accaduto dopo, e che è stato tanto memorabile da essere riportato anche nel mio papiro di laurea, alla sezione: ringraziamenti speciali.

Stavo ancora al telefono, quando il signor clochard senzatetto in uno scatto olimpionico da medaglia d’oro ai 100 metri, si alza, viene da me, prende la rincorsa con la testa e mi sputa in faccia.

Si, si, hai letto bene. Quel bastardissimo signor clochard senzatetto mi ha sputato in faccia.

Sempre al telefono e presa dal panico, esco e vado verso la biglietteria, farfugliando qualcosa al mio ex e al bigliettaio e a due clienti che stavano al botteghino.

Il signor clochard senza tetto inizia a corrermi dietro insultandomi con aggettivi che le mie orecchie pie all’epoca non solo non avevano mai sentito, ma non sarebbero nemmeno state in grado di riscrivere. (Anche perché scrivere con le orecchie l’è un po’ dura…).

Il capostazione viene in mio aiuto, e allontana l’individuo urlante. I clienti mi stanno vicino e mi passano i fazzolettini per pulirmi la faccia. Il mio ex si mette in macchina per venire a prendermi. Il bigliettaio mi invita nella loro stanzina per farmi lavare la faccia. Entro. Mi lavo il viso. Alzo gli occhi e vedo le pareti dell’ufficio piene di poster di signorine ben poco vestite. Ah benon, dalla padella alla brace, penso.

Il mio ex arriva, e dice di volermi portare a casa. Ma non esiste: ho passato un mese sui libri e quell’esame io lo voglio fare, quindi mi faccio accompagnare a Padova. Non perché fossi secchiona, ma perché ero chiaramente sconvolta.

Arrivo all’università, cerco l’aula, entro. Avevo ancora la faccia rossa tanto l’avevo grattata per pulire la pelle. Erano le due del pomeriggio, e parlando con alcuni studenti in attesa come me di fare l’esame, scopro che nella mattinata erano state interrogate 13 persone. 11 bocciati, 2 promossi col 23.

Ah benon, parte seconda.

Arriva il mio turno. Buongiorno signorina, mi dia il libretto. Allora, vediamo un po’. Mi parli della Analitica dei pensieri di Kant.

Ecco, appunto. C’erano 10 pagine che non avevo capito. 10 su 526. E mi aveva chiesto quelle.

OH-MY-GOD.

E in quel momento, mi scatta la regola di oggi, e mi metto in modalità: SULL’ANALITICA DI KANT SO TUTTO.

E inizio a parlare mettendo una dietro l’altra le frasi che avevo impresse nella mente – impresse, ma non capite – come se Kant ed io fossimo stati compagni di merende dai tempi del liceo.

Parlo per 20 minuti, poi il prof. mi interrompe, sorride, scrive sul libretto e mi congeda.

Torno al posto, apro il libretto. 30 e lode.

Esco, vado in bagno, e mi metto a piangere per tutta la tensione che avevo vissuto quel pomeriggio. E per la gioia di aver portato a casa un voto alto, in una giornata come quella.

Qualche mese dopo mi sono laureata. Tesi, festa e, in piena tradizione padovana, papiro con la mia caricatura. Ok, forse da questo disegno non sembro la studentella tanto caritatevole, e soprattutto PIA che ho descritto finora, ma posso discolparmi con un’altra famosa citazione filosofica, attribuita a Jessica Rabbit: io non sono cattiva. E’ che mi disegnano così…

 

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