CERCA IL BUONO, TROVERAI IL BELLO
La Messa è quasi finita.
Le gambe mi tremano un po’ meno, bloccate sotto la tastiera.
Resta un’ultima canzone, da suonare per me e da cantare per loro.
Mi volto a guardarle, e lo faccio nel momento stesso in cui loro stanno guardando me.
I nostri sguardi si incrociano, si agganciano.
Eccole lì, le mie quattordici scapestrate; eccole lì le mie 14 angiolette, diventate coriste per un giorno.
Sorridiamo. Io a loro, e loro a me.
Non credo ci sia mai stata un’insegnante più orgogliosa di quanto mi sia sentita io in quel momento.
Ma facciamo un passo indietro.
Inverno 2002. Mi sono laureata da poco, eppure già da settembre sono stata assunta come insegnante in una scuola professionale a tre indirizzi: elettrico, meccanico e grafico. Il mio compito è seguire alcuni ragazzini difficili, una sorta di insegnante di sostegno.
E’ una scuola cattolica, gestita esclusivamente da preti, ma con insegnanti quasi tutti laici.
Oggi le cose sono cambiate, ma allora veniva considerato un po’ come un istituto ultima spiaggia: raccoglieva soprattutto studenti che tutto volevano fuorché studiare, ragazzini con famiglie in difficoltà, personalità borderline, giovani costretti a tentare di ottenere un diploma.
Per lo più sono maschi, salvo una minima percentuale di studentesse, iscritte tutte nella sezione grafica.
Io arrivo in un uggioso lunedì di fine settembre, e tutti gli occhi sono subito su di me, che somiglio gran poco alle mie colleghe.
Lunghi capelli biondi, magrissima, jeans attillati e ballerine.
Sono stata anche così.
Gli animi si scatenano.
Agli studenti non par vero di vedere camminare per i corridoi una come me, soprattutto per il ruolo che impersonavo; ma con le studentesse il rapporto parte subito malissimo: si crea da parte loro una sorta di invidia sottile, per cui i primi tempi mi offrono soltanto un muro di ostilità.
Ma dura poco, perché ci metto un niente ad ambientarmi, e a conquistare la loro fiducia, soprattutto quella delle ragazzine più popolari e più forti del gruppo.
Le capobanda, per capirci.
E più mi integro nella scuola – tanto fra gli allievi che con i colleghi – più scopro che alcuni professori non hanno propriamente un’indole umanitaria o pedagogica, anzi, trattano gli studenti seguendo i peggiori dei cliché.
Sembri ribelle? Allora SEI un ribelle. E vai represso.
Sembri stupido? Allora SEI stupido. E vai emarginato.
Sembri una poco di buono? E allora SEI una poco di buono, e vai marchiata.
Più passano i giorni, più mi fa male vedere il meccanismo che scatta in automatico con alcuni insegnanti, abituati a considerare le allieve come delle piccole poverette destinate a fare nulla nella vita.
Più passano i giorni, più entro in confidenza con quelle ragazzine – e scopro dentro di loro universi delicati e pieni di purezza, che non hanno il coraggio di mostrare perché troppo abituate alla sfiducia della gente.
Troppo abituate alle persone che si fermano all’apparenza, senza andare oltre al trucco marcato sugli occhi, al filo del perizoma che esce dai pantaloni e allo sguardo spavaldo.
Tutta fuffa, secondo me, eppure sono circondata da colleghi che si fermano a quell’aspetto e basta.
E non posso accettarlo.
Così mi viene un’idea.
Ne parlo con il rettore.
Ne parlo con le ragazze.
Ne parlo con alcuni colleghi.
Ed inizio ad incontrarmi di nascosto, due volte a settimana, con tutte le 14 ragazzette.
E cosi accade.
Accade che quel Natale del 2002, durante la Santa Messa celebrata da tutti i preti dell’istituto alla presenza di tutto il personale, dagli studenti ai bidelli, ci sia un coro d’eccezione ad animare la liturgia, un coro formato da 14 ragazzine di quindici e sedici anni, tutte vestite di rosso (e tutte le cose rosse che indossano sono mie), tutte con un’aureola in testa (formata da un cerchio di fil di ferro attorno al quale abbiamo intrecciato dei festoni argentati strappati dagli alberi di Natale del cortile) e tutte bellissime.
Senza un filo di trucco, senza un minimo atteggiamento di provocazione, ma normalissime e splendide ragazzine di quindici e sedici anni, che hanno ricevuto fiducia e hanno deciso di ricambiarla.
Mostrando il bello che sono.
Le mie 14 diavolette erano diventate angeli, semplicemente dando loro la possibilità di far vedere il bello che avevano dentro.
Non dimenticherò mai il loro sguardo, il loro impegno, il loro coraggio nell’esporsi di fronte a tutti.
La testa alta e gli occhi fieri di chi ha vinto la sua battaglia.
Allo stesso modo, non dimenticherò mai lo sguardo di quegli insegnanti che non avevano mai creduto in loro.
Uno sguardo sconfitto, perché li avevamo inchiodati alla loro incapacità di cercare il buono per trovare il bello.
Un’alchimia possibile, se solo accettiamo di superare i cliché e di riconoscere che ogni persona porta del bello dentro di sé.
Non farti fermare dalle apparenze, dalle difficoltà, dalla diversità, da quello che ti spaventa solo perché non lo conosci.
Non farti bloccare dalla paura della delusione.
Cerca sempre il buono delle persone, troverai il bello di quello che sono.
E se non ce la fai, se proprio, proprio sei di fronte a qualcuno che il buono c’è l’ha nascosto troppo sotto e non vuole farlo saltar fuori, tu avrai sempre la soddisfazione di averci provato.
E il buono – e il bello – alla fine saranno soltanto i tuoi.
La messa finì con Happy Xmas – War is Over di John Lennon, quella volta lì.
E all’ultima nota, si sentì soltanto il fragore dell’applauso spontaneo partito dall’assemblea; superato soltanto da un applauso più lieve, ma pieno di bellezza.
Le mie 14 scapestrate che si applaudivano fra loro.
Sorridendo.