BARARE NON PREMIA (SOPRATUTTO SE NON CI SEI PORTATA)
Ho portato questo peso per anni. 25, ad essere precisi.
Ma adesso ho deciso di averne abbastanza. Non posso più andare avanti con quest’onta che mi pesa dentro come un macigno.
E’ giunto per me il momento di dire la verità.
25 anni fa ho barato.
25 anni fa mi sono presa un merito che non mi spettava.
Primavera 1991. Sono per la seconda volta in prima liceo.
A Vicenza viene organizzata una manifestazione sportiva, una sorta di gara podistica ambientata in pieno centro; tre giri delle piazze che tutti gli studenti delle superiori devono affrontare, pena un voto negativo in educazione fisica.
Faccio una premessa: quando si parla di educazione fisica, io sono senza dubbio la persona più maleducata del mondo, perché non ho mai saputo fare niente.
Alle elementari non era stato un problema, perché all’epoca l’ora di motoria manco esisteva.
Alle medie ho scoperto che il mondo ginnico sportivo motorio stava alla mia persona come un maglione di lana indossato a luglio a mezzogiorno a Rimini.
Alle superiori questo concetto è stato dettagliatamente approfondito.
Ho tentato la mia ultima chance a vent’anni passati, durante un viaggio a Marsa Alam nel quale ho voluto provare con il tennis, e il quad, e le immersioni. Ma il risultato è stato lo stesso. Un disastro su tutta la linea, sopratutto su quella dell’immagine.
Io e lo sport – praticato – siamo sempre stati due universi inconciliabili.
Tranne in quella primavera del 1991. Tranne per quella prima edizione della VicenzaVicenza.
Obbligata ad essere presente, mi trovo al via con tutte le mie compagne.
Siamo in una Piazza dei Signori gremita di gente.
Lo starter dà il via.
Sono giorni che mi preparo psicologicamente per questo momento, perché ho deciso che non posso fare brutta figura; devo dare del mio meglio, perché posso farcela. Dopotutto si tratta solamente di correre tre volte intorno alla città.
Lo starter dà il via, e io parto in quarta che neanche un ghepardo in preda ad un attacco di fame.
Percorro i primi duecento metri con tutta la forza che ho dentro, correndo come meglio posso fare.
Sono giorni che mi preparo, sono giorni che ho programmato tutto. Sono giorni che ho deciso come affrontare questa prova della mia vita: bruciare i primi duecento metri – quelli pieni di spettatori – e appena girato l’angolo svenire a terra come se non ci fosse un domani.
Ed è esattamente quello che faccio.
Dopo i primi duecento metri, la mia traiettoria vira decisamente verso sinistra, puntando dritta dritta ai portici.
Qualche mia compagnia si volta, ma io faccio cenno che va tutto bene, che loro possono procedere tranquillamente.
Tutto il gruppone mi sfila di fianco; in pochi secondi sono sola, e sollevata come mai in vita mia.
Finalmente sola, finalmente in grado di recuperare il fiato che quei duecento metri di sprint mi ha prosciugato per i decenni a venire.
Sento ancora i polmoni bruciarmi in gola.
Ma sono libera, esattamente come avevo previsto: ora posso gigionare tranquillamente per le vie del centro, camminando serenamente verso il traguardo e lasciandomi doppiare due volte, badando solo ad arrivare alla fine giusto per non chiudere ultima.
Tattica perfetta, che metto in atto subito entrando nel primo bar che trovo per fare colazione e recuperare un colore del viso umano (dopo lo sprint di quei 200 metri sono dello stesso colore della terra di siena. Bruciata).
Giusto il tempo di finire l’ultimo pezzetto di un krapfen alla crema, che vedo il gruppo passare.
Primo giro andato.
Esco senza farmi notare, e comincio ad incamminarmi verso il traguardo.
Con calma, molta molta molta calma, gustandomi tutte le vetrine, chiacchierando con l’edicolante e fermandomi pure a scambiare due parole con i volontari di una onlus messi lì a distribuire volantini.
Ci fossero stati i cellulari avrei potuto farmi qualche partita a Candy Crush in piena tranquillità.
Ecco di nuovo il gruppo.
Secondo giro.
Sto per mettere in atto la parte finale del mio piano: avvicinarmi al traguardo seguendo una stradina laterale, e unirmi alla coda del gruppo proprio mentre sta entrando in Piazza per gli ultimi duecento metri.
Sono appostata dietro l’angolo quando sento il brusio avvicinarsi.
Ecco i fantastici mille e mille studenti che hanno percorso chissà quante centinaia di metri di corsa.
Pazzi.
Quando penso siano sfilati quasi tutti, mi butto in mezzo a loro – nessuno si stupirà se arrivo fra gli ultimi.
Comincio a correre, esattamente con la stessa foga e disperazione con cui avevo fatto i miei primi – e unici – duecento metri.
In quattro secondi il battito del cuore tocca livelli mai più raggiunti, sento il sudore scivolarmi lungo la schiena e in viso devo essere talmente paonazza da non sembrare nemmeno italiana.
Entro in una Piazza dei Signori ancora più popolata di quando quest’incubo è iniziato.
E lì accade il fattaccio.
Sono quasi al limite delle forze, inizio ad avere la vista offuscata, quando sento una donna afferrarmi per un braccio e spostarmi verso sinistra.
Tento di opporre resistenza ma non riesco a gestire i muscoli del mio corpo.
Non sto capendo più niente, sento solo quella donna spingermi verso un tavolo, dove un’altra signora prende il numero della mia pettorina e inizia a battermi sulla spalla.
Sono talmente sfinita che non riesco quasi a sentirla parlare, tanto la sua voce mi pare provenire da una dimensione lontanissima.
Da dove sento pronunciare un numero.
Ventiduesima.
Mi accascio a terra senza poter dire una parola.
Qualcuno mi porta dell’acqua. Credo me l’abbiano buttata in faccia.
Ventiduesima. Che cazzo avrà voluto dire con quel numero? Sto tentando di dare un senso a quegli ultimi cinque minuti appena vissuti, quando vedo Gelindo Bordin, primo italiano di sempre a vincere una maratona olimpica e guest star dell’evento, passarmi accanto e farmi i complimenti.
“Hai fatto un ottimo tempo; ventiduesima su quattromiladuecento non è affatto male. Mai pensato a una carriera nella corsa?”
Lo guardo come se mi avesse appena chiesto in che pianeta viviamo.
E realizzo quello che è davvero accaduto.
I giri previsti non erano 3, ma 4.
Il gruppo cui mi ero aggiunta alla fine non erano gli studenti in coda al terzo giro – quindi gli ultimi – ma quelli in testa al quarto, quindi i primi.
E quella signora che mi aveva preso per il braccio e trascinata fuori dal percorso, mi aveva vista talmente sfinita e stravolta che pensava fossi una fra i primi, e mi aveva indirizzata verso il tavolo dove venivano registrati i tempi.
Quell’anno a tutti gli studenti di prima superiore del vicentino venne consegnato un libretto con le foto della manifestazione. E con la classifica. E con i tempi.
E io ero nero su bianco al ventiduesimo posto.
Non mi sono mai sentita tanto disonesta come in quell’occasione.
Avevo barato, anche se quel giorno stesso avevo confessato tutto alle mie compagne (scoprendo che eravamo state in tante ad applicare la mia personalissima visione di quella maratona, solo che io ero stata l’unica ad aver sbagliato i tempi per l’entrata nel gruppo).
Avevo barato, anche se la mia professoressa di educazione fisica, che non aveva creduto nemmeno per un secondo al mio risultato, aveva accolto la mia confessione con una sonora risata sopra e morta lì.
Avevo barato, e non fa per me.
Perché non so barare; non l’ho mai saputo fare, non ci sono proprio nata.
E se non ci sei nata, con la scaltrezza di saper barare, non lo imparerai mai.
E sinceramente, è una cosa di me che manco cambierei.
Non so barare nella vita, se sono triste piango e se sono felice devo dirlo a tutti.
Non so barare con le persone, se mi piace uno si vede subito e se qualcuno – invece – proprio non lo sopporto diventa palese.
Non so barare con il destino, che se qualcosa va storto mi ci arrabbio e se arriva qualcosa di bello non posso non ringraziarlo.
Non so barare con l’amore, che cerco e cercherò sempre perché l’amore è energia e Dio solo sa quanto io abbia voglia di dare – e ricevere – quell’energia lì.
Non so barare nemmeno con me stessa, anche se ci provo da sempre; eppure non riesco a far finta di essere diversa da quello che sono.
E alla fine, credo vada bene, benissimo così.