“Ciao, scommetto che tu sei il giornalista”. Lui ride, un po’ sorpreso un po’ spiazzato.
E di quella risata mi innamoro subito.
Era mercoledì. Mercoledì 10 settembre 2003. Il contesto è il concorso musicale Relazioni Sonore, organizzato dal mio comune e che devo presentare io per tutte le sere.
Qualche settimana prima sto chiacchierando con Paola, l’organizzatrice, in merito alla giuria di esperti da creare.
“Voglio Fabio Volo, Paola. Daiii!!!”
“Fabio Volo è inavvicinabile, Wendy. Però ho trovato un giornalista musicale molto bravo, Fabio Velo.”
Ci rifletto un attimo.
“Beh, dopotutto c’è solo una vocale di differenza. Può andare.”
Quel mercoledì lo riconosco subito. Pantaloni color kaki, camicia azzurra, maglioncino legato in vita. Giornalista anche nel look.
E una cultura musicale di quelle che ne incontri una nella vita di persone che di musica ne sanno tanto così.
Leghiamo subito. Io perché sono pazza, e forse un po’ spericolata.
Lui perché ama conoscere le persone, e le ama per quello che sono.
Tra una presentazione e l’altra ci scambiamo un paio di battute soltanto, ma tanto basta per farmi sentire uno strano sfarfallio nella pancia.
Passa la prima sera del concorso, e io vado a casa fantasticando un po’.
Passa la seconda sera del concorso, e io vado a casa sballonzolando sulle note della marcia nuziale, perché Fabio è proprio il mio ragazzo ideale: più grande di me (anche se solo di due anni), sempre sorridente, eterosessuale, normodotato (ad intuito), e grande amante di Baglioni.
Vai a trovarlo un altro così coi tempi che corrono.
Venerdì il concorso fa una pausa; sabato c’è la finalissima.
Arrivo convinta che sarebbe stata la sera della dichiarazione, perché a farmi film in testa era già molto brava anche allora.
Anzi, probabilmente ci sono nata con una pellicola che mi gira in testa e proietta dai miei occhi immagini di gran lunga diverse dalla realtà, che se il mondo fosse davvero come lo vedo io da dentro, quanto sarebbe diverso lo sappiamo solo in due. Io e chi la realtà la crea sul serio.
Faccio un numero presentando i Munchies, pupazzi inventati da Gip; uno lo limono pure, di pupazzo.
Fabio ride, mi dice che sono pazza, mi chiede il segno zodiacale.
“Leone, ovviamente”.
“Ma dai! Come le donne della mia vita! Mia mamma è leone, e pure mia morosa!”
Nella mia testa scatta il mesh-up fra la marcia nuziale e il requiem di Mozart; ecco un piccolo dettaglio che – nel mio film mentale – non avevo previsto.
Il giornalista è fidanzato.
CazzuCazzu. Forse avrei dovuto chiederglielo prima di prenotare le bomboniere; mentalmente, certo.
Ma proprio in quel momento, scatta qualcosa.
Perchè quel pseudo innamoramento durato due giorni diventa una cosa ben più seria. Amicizia.
Fabio diventa il mio migliore amico maschio.
E con lui faccio le cose che fanno i migliori amici maschi: andiamo alle partite di calcio locali perché lui deve scrivere gli articoli sul giornale, e a forza di chiacchierare perdiamo il risultato finale e manca poco che non scriva un articolo sbagliato.
Andiamo ai concerti live e ridiamo come pazzi su tutto e su tutti.
Andiamo a cena in trattoria e mi lascia guidare la sua macchina, realizzando in quel momento che il vero pazzo in realtà è lui.
Vado a pranzo a casa sua, e lo ascolto mentre suona il piano per me.
Restiamo a chiacchierare in strada fino a notte tardi, io seduta in maniera improponibile perché mi scappa la pipì, lui che si appende ad ogni lampione per farmi vedere quant’è – era – atletico.
E mi sento talmente grata per la nostra amicizia, per questo rapporto speciale, che un po’ mi vergogno di avere avuto per due giorni una cotta per lui.
E poi finalmente conosco la sua ragazza, e la trovo così bella e così solare e con i due occhi marroni più luminosi e profondi che abbia mai visto, che in effetti il mio migliore amico maschio non potrebbe non amare una ragazza bella così.
A maggio dell’anno dopo, si sposano.
E io scelgo di andare al matrimonio del mio miglior amico vestita un pochettino come Julia Roberts nel film, con qualcosa color indaco, e cioè una bellissima gonna lunga.
Così quel sabato arrivo in centro a bordo della mia FordKa, corpetto verde tempestato di pietrine viola e jeans, perché sarebbe stato impossibile guidare da casa con la gonna senza stropicciarla.
Scendo dall’auto, mi infilo la gonna da sopra, tolgo i jeans da sotto, indosso i sandali dorati col tacco 12.
Fra un sampietrino e l’altro, raggiungo la chiesa.
Li vedo in fondo, e c’è talmente tanto amore in quella chiesa che mi commuovo.
Perché quando due persone sono destinate ad appartenersi, non c’è niente che possa separarli.
Niente e nessuno.
La vita può essere strana e bitorzoluta e dispettosa e antipatica; ma quando qualcuno è destinato ad essere tuo, prima o poi le cose combaciano.
Fabio e Chiara mi sono sembrati questo dal primo momento che li ho visti insieme: i due pezzi centrali dello stesso puzzle, le uniche due tessere create per incastrarsi tra loro, e tra loro soltanto.
Il resto del mondo per loro è sfondo, e tra le tesserine di questo sfondo – amici, parenti, colleghi e legami vari – ci sono anche io, sempre pazza, un po’ meno spericolata, un po’ meno allenata a farmi film.
E ancora in attesa di quel pezzetto di puzzle che si incastri solo con me, (e che non disdegni un concerto live di Claudio Baglioni!).
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