SIAMO STATE TUTTE UNO SCARABOCCHIO
Sono in pericolo, sono così in pericolo che non riesco nemmeno a parlare. Le mani mi tremano, e il fiato mi si spezza sbattendo contro le pareti di questa vecchia cabina telefonica. Devo chiamare qualcuno che corra in mio aiuto.
Inserisco la moneta, alzo la cornetta, inizio con l’indice della mano destra a comporre il numero. Devo chiamare la mia mamma, lei sicuramente mi può salvare. 049 942 devo stare calma, devo riuscire a chiamare mia mamma. Compongo altre due cifre, e poi proprio all’ultima, succede qualcosa.
Il tasto non funziona. Premo ma non si seleziona nulla.
Oppure premo un numero ma ne esce un altro.
Oppure premo un numero e resta bloccato.
E io fisso quella sequenza di numeri che fallisce proprio alla fine, e sono sempre più in pericolo.
Ecco la classica descrizione di un incubo; esattamente l’incubo che mi ha perseguitata per quasi tutti gli anni del liceo, e anche molto dopo.
L’origine? Il risultato del mio primo compito di matematica.
“Prof?” (dico io avvicinandomi intimorita alla cattedra).
“Cosa vuoi, Muraro?” (dice lei insofferente, come se si trovasse di fronte un’enorme e fastidiosa zanzara).
“Mi ha segnato questo esercizio come sbagliato, ma in realtà è corretto” (dico io con un filo di voce, tentando di sembrare credibile ma allo stesso tempo risoluta).
“E anche se fosse?” (dice lei senza alzare lo sguardo dal registro dove sta annotando i compiti per la prossima volta).
“Con questo esercizio corretto dovrei avere un 6, e non un 5” (dico io appellandomi ad un senso di giustizia cosmico che – come stavo per scoprire – alle scuole superiori non esiste).
Ecco che lei alza lo sguardo. Mi fissa come si fisserebbe la caccola dentro al naso del dentista che sta per otturarci un dente.
Fissa me, poi fissa il compito che ha appena consegnato.
Le indico il primo esercizio, un grafico cartesiano di cui andavano individuati e trascritti i punti. 7 su 8 erano corretti. Nell’ultimo avevo scritto (2,4). Avevo giustamente scritto (2,4), perché erano assolutamente le coordinate giuste.
“Qui c’è scritto (2,2). E’ sbagliato”.
“Ehm, no. Ho scritto (2,4). Questo è un 4. Anche perché altrimenti non avrebbe senso, il grafico non starebbe in piedi. Tutti gli altri sono giusti, vede? Questo è un 4, chiaramente”.
“Muraro, io sono qui per insegnare matematica, e non per decifrare gli scarabocchi degli alunni. Impari a scrivere meglio. Vada a posto, per cortesia”.
E mentre vado al posto, la sento ripetere quella parola. Scarabocchio.
Nessuno prima di quella paffuta e diversamente nordica professoressa di matematica mi aveva mai associata alla parola scarabocchio. E nessuno da quel momento è più riuscito a farmi superare il trauma della matematica, perché i numeri sono diventati – letteralmente – il mio buco nero didattico. Da quel giorno la matematica mi ha sempre fatta sentire inutile e indecifrabile, proprio come uno scarabocchio.
E da quel giorno, la parola scarabocchio mi ha sempre fatto venire i brividi, perché mi immaginavo continuamente così.
Uno scarabocchio di studentessa, uno scarabocchio di figlia, uno scarabocchio di amica, uno scarabocchio di fidanzatina.
Uno scarabocchio di essere umano.
Fino a quando non ho scoperto il potere delle parole.
Perché scarabocchio assomiglia a Scarabeo, e Scarabeo è quel gioco dove si inventano le parole.
E io crescendo ho imparato proprio con le parole a sapermi difendere e nelle parole a sapermi rifugiare e dalle parole a sapermi schermare e nelle parole a trovare consolazione e ristoro.
Sono diventata una cultrice delle parole, e grazie a questo ho superato anche il trauma – ma non l’antipatia – per i numeri.
Così come uno scarabocchio è il primo impatto di un bambino quando inizia a tenere un colore in mano, il mio scarabocchio in realtà ero soltanto io, tutta io, in versione nebulosa.
Ero quella che sarei diventata, ma tutta arrotolata su me stessa.
Ero un gomitolo di piccole me. Che un po’ alla volta ha preso la forma di quella che sono.
Siamo state tutte – naturalmente – uno scarabocchio, ciò che conta è il disegno che siamo diventate dopo.
Quindi, cara prof, sappia che gli incubi nelle cabine telefoniche non li faccio più, e uso ancora la calcolatrice anche solo per calcolare l’età di una persona.
Perché non erano, non sono e non saranno mai, i numeri la mia dimensione. Sono le parole.
Così come non era – e forse non lo è ancora – l’insegnamento la sua dimensione.
Ma dopotutto, ci vuole una gran dose di coraggio e passione e umiltà e anche un pochettino una piccola botta di culo, per riuscire a capire quale sia la nostra dimensione, e passare da scarabocchio a un disegno compiuto e perfetto.
E tu, stai vivendo nella tua dimensione?