Regola#204nessunpostoèbellocomecasamia

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…Basta non lasciarsi prendere dal senso di colpa, mantenere la menta fredda, ricordare su chi possiamo contare davvero, e costruirci da sole il nostro vialetto di mattoncini gialli…

NESSUN POSTO E’ BELLO COME CASA MIA

Lo spavento, quello vero, quello che ti piega le gambe e ti fa sentire un formicolio lungo tutta la colonna vertebrale, mi ha preso dopo.
Quando tutto era già finito. Quando oramai ero al sicuro.
Perché a volte ci rendiamo conto del pericolo che abbiamo scampato solo accorgendoci dell’ombra di terrore che leggiamo negli occhi di chi ci ama.

Ho otto anni.
La mia amichetta del cuore si chiama Debora, è una bella bambina dai capelli lunghi e biondi e il cuore buono. Abita a venti metri da casa mia, riusciamo a chiacchierare dalle finestre dei rispettivi bagni. Siamo inseparabili.
Quel giorno era un martedì, e lezione di danza.
Toccava al papà di Debora venirci a prendere.

Sono le sette passate, fuori è già buio.
Il papà di Debora ci viene a prendere con la sua lunga macchina bianca; saliamo dietro, non smettiamo un secondo di chiacchierare.

“Devo fermarmi un attimo a comprare una cosa; voi fate le brave e aspettatemi qui, capito?”.
La macchina accosta, il suo papà ci lancia uno sguardo sicuro e rigido. Promettiamo di non muoverci. Dopotutto, si tratta di pochi minuti e siamo lungo il viale del centro, pieno di gente e negozi.
Lui scende e ci chiude dentro, noi intanto continuiamo a chiacchierare guardando fuori le persone che camminano sui marciapiedi, e fantasticando sulle loro vite.
Le vetrine sono tutte accese, piene di luci.
Credo fosse Natale, o giù di lì.
Guardiamo tutte le signore eleganti che entrano ed escono dai negozi in equilibrio perfetto su tacchi altissimi.

E poi lo vediamo. Un negozio di tutù e articoli per la danza.
Bellissimo, con un paio di scarpette a punta rosse fiammanti che spiccano su tutto il resto.
Non resistiamo. Ci guardiamo negli occhi, e senza dire una parola smontiamo dall’auto e corriamo verso la vetrina.
Saranno stati venti, trenta metri al massimo. O almeno così pensavamo.
Restiamo qualche minuto a guardare quelle scarpette da sogno, poi torniamo alla realtà e ci giriamo per andare di nuovo in auto.

Ma l’auto non c’è più.
E’ sparita.
Il papà di Debora non è più lì.
Ci guardiamo smarrite, dal fondo della pancia inizia a salirci uno strano rigurgito di paura, rimorso e tristezza.
Probabilmente iniziamo a piangere.
Una signora ci passa accanto, ci vede, si avvicina.
“Bambine, che succede?”
“Il suo papà doveva portarci a casa, ma non lo troviamo più”, dico fra i singhiozzi.

Di quella signora non ricordo nulla se non la sua mano calda e rassicurante che passa nella mia guancia e poi prende la mia.
“Venite con me.”
E dopo qualche minuto sono seduta in uno sgabellino, vicino ad una stufa a legna accesa, con una tazza di latte caldo fra le mani,  la mia migliore amica vicino a me, in una casa bellissima e piena di fotografie in cornici d’argento.
La signora ha il telefono in mano, ci chiede se sappiamo il numero di casa nostra.
E io alzo gli occhi, tiro su con il naso e mi sento al sicuro, perché quel numero lo so a memoria, visto che mi era stato insegnato da mamma e papà non appena  avevo iniziato a parlare.
Mi sento una bambina responsabile e brava, e per un momento l’orgoglio prende il posto della colpa per aver disubbidito al papà di Debora.

Dopo un tempo che non saprei calcolare, sento suonare il campanello.
Era il mio papà, stavolta.
Era venuto a prenderci.
Portiamo a casa Debora.
Poi andiamo a casa noi. L’aria in macchina è tesa, papà è silenzioso. Non capisco se abbia più voglia di abbracciarmi e piangere, o darmi uno schiaffo, e piangere ancora di più.
Ho paura di come possa aspettarmi mamma.
Ma poi salgo in casa, entro in cucina, e sul tavolo vedo un piatto pronto e fumante; il mio piatto preferito di bambina di 8 anni: i tortellini alla panna.
Mamma sta come papà, per metà arrabbiata e per metà sollevata.
Per quella sera non ne parliamo più, ma il giorno dopo mi spiega cos’era successo.

Non era stato il papà di Debora ad andare via, eravamo state noi che – allontanateci troppo – non ricordavamo più dove fosse la sua auto. E per lo spavento c’eravamo messe a camminare ancora di più, arrivando quasi cinquecento metri più in là.
Quando lui era uscito dal negozio, non ci aveva più viste ed era corso a casa in preda al panico per avvisare la mamma di Debora e i miei genitori.
Nemmeno il tempo di decidere cosa fare, che era arrivata la telefonata di quella signora.
E le bambine perdute erano tornate a casa, al sicuro.

Nella vita si ci perde, amica mia.

Ci si perde in storie sbagliate, ci si perde in amori malati, ci si perde in situazioni che non ci appartengono.
Ci si perde in percorsi che non abbiamo scelto noi, in legami che ci fanno male, in decisioni che abbiamo preso per far contenti gli altri ma che fanno scontente noi.
In abitudini che vorremmo toglierci. Ci si perde nei panni di una versione di noi stesse troppo  lontana dalla realtà.

Basta non lasciarsi prendere dal senso di colpa, mantenere la menta fredda, ricordare su chi possiamo contare davvero, e costruirci da sole il nostro vialetto di mattoncini gialli, proprio come accade a Dorothy nel Mago di Oz.

Nella vita ci si perde.
Ma alla fine ci si ritrova sempre.
Perché non c’è posto migliore che casa propria.
E casa propria è dentro di te.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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